Madagascar Vohipeno 2017

MISSIONE DI SUSANNA (MEDICO)

“Henintsoa” in malgascio significa “colmo di bene”.

La prima volta che lo lessi sul cartello stradale non ne conoscevo la traduzione, sapevo solo che l’ospedale che ci attendeva, dopo tante ore su quella strada infinita, era vicino. Mi sembrava in realtà di essere in viaggio da molto più a lungo, di aver aspettato e pensato a quel momento da sempre. “Ci siamo”, mi dissi. Mi assalì una grande emozione che la notte non mi lasciò dormire. Pensai che il giorno seguente sarebbe stato cruciale per me.

Si comincia così, con in cuore tante domande e una vena di presunzione di rendersi utili, restando in parte tramortiti e in parte confusi da quella realtà cruda e incomprensibile, così radicalmente diversa da mettere in dubbio le certezze che ti eri portato nel bagaglio tra il malarone e lo spray antizanzare. I primi giorni sono letteralmente distruttivi, come un martello invisibile che sbriciola poco alla volta il tuo orgoglio di essere un “dottore”, la tua boria di “aiutare”, il tuo pregiudizio di “insegnare”. Ti ritrovi a guardare sperduto quei pazienti che occupano così poco spazio nel loro letto, magri e malati di patologie per le quali tutti i tuoi anni di studio nell’università europea non sono serviti a molto.

“Sono inutile”, mi ripetevo. Sentivo la mancanza del mio ospedale da migliaia di dipendenti, interventi in elettivo, cassetti dei medicinali sempre pieni, consensi informati, diagnostica preoperatoria tecnologica,  capnografi, respiratori moderni e sedativi per i pazienti agitati. La gente malgascia non aveva bisogno di me: serviva un sistema sanitario, facoltà di medicina, scuole, diritti. Mancava tutto. La rabbia continuava a non farmi dormire la notte, mi sentivo sovrastata da quel bisogno enorme, e io ero così piccola, così ingenua nel credere di portare qualcosa di buono in quel posto.

Ad un certo punto però decisi che fosse giunto il momento di accettare la situazione e cambiare prospettiva, che fosse ora di mettersi da parte, guardare, ascoltare.

Il medico malgascio dell’ospedale è un uomo di poche parole e tante risorse. Non ha un vero orario lavorativo, vive in ospedale e può essere chiamato ad ogni ora del giorno e della notte. Sarebbe anestesista, ma, come ogni dipendente dell’ospedale, fa tutto. Cura i bambini, gli anziani, i cardiopatici, le donne incinte, i pazienti con il mal di denti. Ascolta, visita, fa un’ipotesi di diagnosi e cura. E prega. Quando gli si chiede perché ha deciso di fermarsi a lavorare nell’ospedale di Henintsoa e non nella capitale come la maggioranza dei medici, risponde che lo fa perché ha fede, senza di essa non potrebbe farcela.

La suora che ha in gestione l’ospedale non dorme mai, non ha mai un giorno libero, non tiene nulla per sé. Condivide anche l’ultima goccia di energia della giornata. Dopo aver studiato in Italia ed essere diventata caposala in un grande ospedale romano, fu inviata in quel piccolo angolo di mondo a fare del suo meglio. Conosce tutti i malati, le loro storie, il loro decorso clinico; si occupa dei dipendenti, dei medici stranieri, delle consorelle, non dimentica niente e nessuno, nemmeno i regali di Natale per i pazienti. A volte si arrabbia: quando un malato viene discriminato o trattato diversamente, quando qualcuno ha deciso di arrendersi, quando un bambino non riceve le cure necessarie dai genitori. Questa piccola donna non si perde in filosofie e parole, non parla del cambiamento: con tenacia e compassione, giorno dopo giorno, curando, aiutando, lei il cambiamento lo fa.

Conoscere queste persone con la loro resistenza e resilienza, vederle all’opera nelle difficoltà quotidiane più o meno grandi, nel cercare soluzioni ai problemi dove molti avrebbero gettato la spugna, è stata una lezione di vita enorme. Cercando di guardare la realtà che mi si era presentata davanti nella sua interezza mi stavo perdendo, mentre dare il proprio meglio, per quanto poco, ad ogni singolo paziente che si presenta davanti dà un senso al tuo lavoro, al tuo percorso, al tuo viaggio. Solo così puoi comprendere perché quell’ospedale merita il suo nome.

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